La Led, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, ha recentemente pubblicato un intervento di Claudio Gallazzi e Barbel Kramer che contesta lo studio da me svolto in relazione ai disegni presenti sul “Papiro di Artemidoro” (vedi “Fotografia e falsificazione”, Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino, AIEP Editore e vedi anche l’articolo nel mio blog: “Il Papiro di Artemidoro, un clamoroso falso”) finalizzato a dimostrare la falsità del papiro medesimo.
Leggo anzitutto quanto contestato da Gallazzi e Kramer a Luciano Canfora e non posso esimermi dal rimarcare fin dall’inizio l’assurdità dell’asserzione per cui egli avrebbe dovuto rintracciare un altro papiro, non iscritto di m.3, per sostenere la falsità di quello in questione: invertendo i termini sarebbe come dire che, se viene ritrovata una corona longobarda decorata con 300 pietre semipreziose, la sua autenticità sarebbe dimostrabile solo se ne venisse trovata un’altra con lo stesso numero di pietre dato che, le corone conosciute, non ne hanno più di 70-80.
Ma venendo alle contestazioni fatte che mi riguardano personalmente, faccio presente anzitutto che veniva da me sostenuto, nello studio sopraccitato, che i disegni erano stati eseguiti sul papiro già danneggiato (quindi in epoca recentissima) in quanto le figure risultavano deformate dalla necessità subliminare di evitare di estendere il disegno nelle zone mancanti del papiro (zone definite “buchi” in tutta la trattazione di Gallazzi Kramer).
Bene, Gallazzi e Kramer non giustificano in alcun modo le deformazioni evidenziate nelle figure e che sono chiaramente determinate dalla presenza dei “buchi” del papiro. Presenza che induce il falsario, come spiegato in “Fotografia e falsificazione” (vedi mio blog), a comprimere le zone disegnate, mano a mano che si avvicinano ai “buchi” e che, viceversa, lo induce ad estenderle abnormemente una volta che il disegno si allarghi in zone ove i “buchi” non siano più presenti.
La contestazione degli autori verte unicamente su due elementi:
1) Gallazzi e Kramer asseriscono che se i disegni fossero stati fatti quando già i “buchi” erano presenti nel papiro, noteremmo sui bordi dei medesimi delle sbavature di colore interessanti le parti di fibra cartacea che invece all’origine (quando il papiro era intatto) non potevano essere raggiunte dall’inchiostro perché compattate con le fibre contigue.
2) Gallazzi e Kramer asseriscono altresì che se invece il falsario avesse fermato il pennello subito prima dell’orlo dei “buchi”, noteremmo, al microscopio di sicuro, dei piccoli intervalli bianchi tra l’ultimo segno di inchiostro e l’orlo del “buco”.
Dato che nessuna sbavatura è presente sugli orli e nessun intervallo bianco appare tra le linee di inchiostro dirette verso l’orlo del “buco”, gli autori affermano essere, questi due dati, prove concrete e non confutabili del fatto che i disegni siano stati eseguiti quando il papiro era ancora integro
Tali ragionamenti non fanno una grinza, peccato però che gli autori ignorino colpevolmente che a questo problema io avevo già fatto specifico e puntuale riferimento, al termine del mio intervento, nella pubblicazione “Fotografia e falsificazione” e riporto qui quella parte di testo (pag. 75-76):
“ Se si volesse aumentare il livello di certezza sarebbe utile esaminare il documento dal vero, in quanto sicuramente si dovrebbero trovare tracce di inchiostro sullo spessore del papiro, là dove le linee finiscono su di una frattura. Se il falsario fosse stato molto in gamba, potrebbe aver provveduto a sfrangiare ulteriormente il papiro dove tali linee tendono a debordare ma non crediamo possa essere riuscito a mascherare tutto in modo perfetto. Nel caso in cui il falsario sia stato estremamente attento a non debordare e successivamente a sfilacciare il papiro, sarebbe sufficiente appurare un indebolimento della pressione sul pennello nei pressi delle fratture. E’ infatti assolutamente necessario alleggerire la mano sul pennello prima di interrompere la linea; anzi, questo avviene in maniera automatica se la linea deve arrivare, sempre visibile, fino all’orlo della frattura.”
Questa contestazione arriva dunque a proposito in quanto evita accuratamente di spiegare l’esistenza delle deformità da me rivelate (che sono la dimostrazione della falsità del papiro) e conferma semplicemente che il falsario ha usato precauzioni estreme nella realizzazione dei disegni, cosa di cui io, al momento della stesura del mio studio, non ero a conoscenza.
Quali precauzioni? Sono Gallazi e Kramer stessi a suggerircelo, specificando che di altri papiri è stata accertata la falsità proprio per l’inchiostro debordante oltre le fratture e per le interruzioni dell’inchiostro medesimo sugli orli delle stesse: mi sembra ovvio che il falsario abbia pensato bene, con tali precedenti, di non incorrere nel medesimo errore. Egli ha quindi certamente operato nella maniera che io già avevo ipotizzato: ha disegnato le figure mantenendo il pennello in compressione fino all’orlo dei buchi senza curarsi di debordare, ma ha poi provveduto a sfilacciare l’orlo dei buchi fino a che ogni traccia di inchiostro debordato non fosse sparita.
Il falsario si è poi dimostrato di notevole intelligenza in quanto ha addirittura utilizzato questo metodo per avvalorare ulteriormente l’autenticità del manufatto.
Come? dipingendo anche su zone quasi integre e provvedendo poi a sfilacciarle in modo esasperato, trasformando tali zone integre in un reticolo talmente rado da non poter ipotizzare che le linee di inchiostro fossero state tracciate in epoca successiva su quelle fibre, tanto distanziate tra loro, senza imbrattare in modo tragico i bordi delle fibre stesse.
Complimenti al falsario dunque, perché l’operazione deve essere stata lunga e difficile ma, del resto, quando si parla di milioni di dollari, la pazienza pervade anche chi, normalmente, ne è del tutto privo.
Si puntualizza poi che il processo di sfilacciamento è stato tranquillamente attuato senza problemi in quanto le fratture con cui abbiamo a che fare non sono “storiche”: i “buchi” si sono prodotti durante l’apertura o “scartocciamento” del papiro, sono cioè di origine recentissima e sui loro orli si può effettuare qualsiasi operazione di “asportazione fibre” senza che la cosa sia scientificamente rilevabile in quanto i bordi, anche se nuovamente sfilacciati, continuano a presentare le stesse caratteristiche prodotte dallo “scartocciamento” recente.
Ci tengo a questo punto a precisare che lo scopo di ogni mia ricerca è sempre stato quello di arrivare alla determinazione della verità e mai e poi mai ho sostenuto delle argomentazioni semplicemente “per aver ragione” a tutti i costi: mi sembra quindi poco corretto da parte di Gallazzi e Kramer non fare alcun riferimento all’ipotesi dello sfilacciamento che annulla a priori ogni loro argomentazione e al fatto che questa operazione l’avevo già ampiamente prospettata al termine della mia analisi.
Determinato quindi che il problema delle “sbavature” non sussiste, rimane invece quello basilare della deformazione dei disegni e sfido Gallazzi e Kramer a trovare un disegnatore che smentisca la mia ipotesi di compressione dei disegni dovuta a limitazioni di spazio (determinate dai “buchi”) e di dilatazione degli stessi dovuta all’assenza delle limitazioni medesime.
Nessun disegnatore, che sia degno di chiamarsi tale, si sognerà mai di smentire questa regola basilare della strutturazione del disegno.
Il Papiro di Artemidoro dunque, falso è e falso rimane, la contestazione di Gallazzi e Kramer null’altro fa che chiudere questo cerchio di falsità aggiungendo l’unica tessera mancante al mosaico, riguardante il raffinato modo in cui ha operato il falsario.
Alberto Cottignoli
La Led, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, ha recentemente pubblicato un intervento di Claudio Gallazzi e Barbel Kramer che contesta lo studio da me svolto in relazione ai disegni presenti sul “Papiro di Artemidoro” (vedi “Fotografia e falsificazione”, Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino, AIEP Editore e vedi anche l’articolo nel mio blog: “Il Papiro di Artemidoro, un clamoroso falso”) finalizzato a dimostrare la falsità del papiro medesimo.
Leggo anzitutto quanto contestato da Gallazzi e Kramer a Luciano Canfora e non posso esimermi dal rimarcare fin dall’inizio l’assurdità dell’asserzione per cui egli avrebbe dovuto rintracciare un altro papiro, non iscritto di m.3, per sostenere la falsità di quello in questione: invertendo i termini sarebbe come dire che, se viene ritrovata una corona longobarda decorata con 300 pietre semipreziose, la sua autenticità sarebbe dimostrabile solo se ne venisse trovata un’altra con lo stesso numero di pietre dato che, le corone conosciute, non ne hanno più di 70-80.
Ma venendo alle contestazioni fatte che mi riguardano personalmente, faccio presente anzitutto che veniva da me sostenuto, nello studio sopraccitato, che i disegni erano stati eseguiti sul papiro già danneggiato (quindi in epoca recentissima) in quanto le figure risultavano deformate dalla necessità subliminare di evitare di estendere il disegno nelle zone mancanti del papiro (zone definite “buchi” in tutta la trattazione di Gallazzi Kramer).
Bene, Gallazzi e Kramer non giustificano in alcun modo le deformazioni evidenziate nelle figure e che sono chiaramente determinate dalla presenza dei “buchi” del papiro. Presenza che induce il falsario, come spiegato in “Fotografia e falsificazione” (vedi mio blog), a comprimere le zone disegnate, mano a mano che si avvicinano ai “buchi” e che, viceversa, lo induce ad estenderle abnormemente una volta che il disegno si allarghi in zone ove i “buchi” non siano più presenti.
La contestazione degli autori verte unicamente su due elementi:
1) Gallazzi e Kramer asseriscono che se i disegni fossero stati fatti quando già i “buchi” erano presenti nel papiro, noteremmo sui bordi dei medesimi delle sbavature di colore interessanti le parti di fibra cartacea che invece all’origine (quando il papiro era intatto) non potevano essere raggiunte dall’inchiostro perché compattate con le fibre contigue.
2) Gallazzi e Kramer asseriscono altresì che se invece il falsario avesse fermato il pennello subito prima dell’orlo dei “buchi”, noteremmo, al microscopio di sicuro, dei piccoli intervalli bianchi tra l’ultimo segno di inchiostro e l’orlo del “buco”.
Dato che nessuna sbavatura è presente sugli orli e nessun intervallo bianco appare tra le linee di inchiostro dirette verso l’orlo del “buco”, gli autori affermano essere, questi due dati, prove concrete e non confutabili del fatto che i disegni siano stati eseguiti quando il papiro era ancora integro
Tali ragionamenti non fanno una grinza, peccato però che gli autori ignorino colpevolmente che a questo problema io avevo già fatto specifico e puntuale riferimento, al termine del mio intervento, nella pubblicazione “Fotografia e falsificazione” e riporto qui quella parte di testo (pag. 75-76):
“ Se si volesse aumentare il livello di certezza sarebbe utile esaminare il documento dal vero, in quanto sicuramente si dovrebbero trovare tracce di inchiostro sullo spessore del papiro, là dove le linee finiscono su di una frattura. Se il falsario fosse stato molto in gamba, potrebbe aver provveduto a sfrangiare ulteriormente il papiro dove tali linee tendono a debordare ma non crediamo possa essere riuscito a mascherare tutto in modo perfetto. Nel caso in cui il falsario sia stato estremamente attento a non debordare e successivamente a sfilacciare il papiro, sarebbe sufficiente appurare un indebolimento della pressione sul pennello nei pressi delle fratture. E’ infatti assolutamente necessario alleggerire la mano sul pennello prima di interrompere la linea; anzi, questo avviene in maniera automatica se la linea deve arrivare, sempre visibile, fino all’orlo della frattura.”
Questa contestazione arriva dunque a proposito in quanto evita accuratamente di spiegare l’esistenza delle deformità da me rivelate (che sono la dimostrazione della falsità del papiro) e conferma semplicemente che il falsario ha usato precauzioni estreme nella realizzazione dei disegni, cosa di cui io, al momento della stesura del mio studio, non ero a conoscenza.
Quali precauzioni? Sono Gallazi e Kramer stessi a suggerircelo, specificando che di altri papiri è stata accertata la falsità proprio per l’inchiostro debordante oltre le fratture e per le interruzioni dell’inchiostro medesimo sugli orli delle stesse: mi sembra ovvio che il falsario abbia pensato bene, con tali precedenti, di non incorrere nel medesimo errore. Egli ha quindi certamente operato nella maniera che io già avevo ipotizzato: ha disegnato le figure mantenendo il pennello in compressione fino all’orlo dei buchi senza curarsi di debordare, ma ha poi provveduto a sfilacciare l’orlo dei buchi fino a che ogni traccia di inchiostro debordato non fosse sparita.
Il falsario si è poi dimostrato di notevole intelligenza in quanto ha addirittura utilizzato questo metodo per avvalorare ulteriormente l’autenticità del manufatto.
Come? dipingendo anche su zone quasi integre e provvedendo poi a sfilacciarle in modo esasperato, trasformando tali zone integre in un reticolo talmente rado da non poter ipotizzare che le linee di inchiostro fossero state tracciate in epoca successiva su quelle fibre, tanto distanziate tra loro, senza imbrattare in modo tragico i bordi delle fibre stesse.
Complimenti al falsario dunque, perché l’operazione deve essere stata lunga e difficile ma, del resto, quando si parla di milioni di dollari, la pazienza pervade anche chi, normalmente, ne è del tutto privo.
Si puntualizza poi che il processo di sfilacciamento è stato tranquillamente attuato senza problemi in quanto le fratture con cui abbiamo a che fare non sono “storiche”: i “buchi” si sono prodotti durante l’apertura o “scartocciamento” del papiro, sono cioè di origine recentissima e sui loro orli si può effettuare qualsiasi operazione di “asportazione fibre” senza che la cosa sia scientificamente rilevabile in quanto i bordi, anche se nuovamente sfilacciati, continuano a presentare le stesse caratteristiche prodotte dallo “scartocciamento” recente.
Ci tengo a questo punto a precisare che lo scopo di ogni mia ricerca è sempre stato quello di arrivare alla determinazione della verità e mai e poi mai ho sostenuto delle argomentazioni semplicemente “per aver ragione” a tutti i costi: mi sembra quindi poco corretto da parte di Gallazzi e Kramer non fare alcun riferimento all’ipotesi dello sfilacciamento che annulla a priori ogni loro argomentazione e al fatto che questa operazione l’avevo già ampiamente prospettata al termine della mia analisi.
Determinato quindi che il problema delle “sbavature” non sussiste, rimane invece quello basilare della deformazione dei disegni e sfido Gallazzi e Kramer a trovare un disegnatore che smentisca la mia ipotesi di compressione dei disegni dovuta a limitazioni di spazio (determinate dai “buchi”) e di dilatazione degli stessi dovuta all’assenza delle limitazioni medesime.
Nessun disegnatore, che sia degno di chiamarsi tale, si sognerà mai di smentire questa regola basilare della strutturazione del disegno.
Il Papiro di Artemidoro dunque, falso è e falso rimane, la contestazione di Gallazzi e Kramer null’altro fa che chiudere questo cerchio di falsità aggiungendo l’unica tessera mancante al mosaico, riguardante il raffinato modo in cui ha operato il falsario.
Alberto Cottignoli
La Led, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, ha recentemente pubblicato un intervento di Claudio Gallazzi e Barbel Kramer che contesta lo studio da me svolto in relazione ai disegni presenti sul “Papiro di Artemidoro” (vedi “Fotografia e falsificazione”, Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino, AIEP Editore e vedi anche l’articolo nel mio blog: “Il Papiro di Artemidoro, un clamoroso falso”) finalizzato a dimostrare la falsità del papiro medesimo.
Leggo anzitutto quanto contestato da Gallazzi e Kramer a Luciano Canfora e non posso esimermi dal rimarcare fin dall’inizio l’assurdità dell’asserzione per cui egli avrebbe dovuto rintracciare un altro papiro, non iscritto di m.3, per sostenere la falsità di quello in questione: invertendo i termini sarebbe come dire che, se viene ritrovata una corona longobarda decorata con 300 pietre semipreziose, la sua autenticità sarebbe dimostrabile solo se ne venisse trovata un’altra con lo stesso numero di pietre dato che, le corone conosciute, non ne hanno più di 70-80.
Ma venendo alle contestazioni fatte che mi riguardano personalmente, faccio presente anzitutto che veniva da me sostenuto, nello studio sopraccitato, che i disegni erano stati eseguiti sul papiro già danneggiato (quindi in epoca recentissima) in quanto le figure risultavano deformate dalla necessità subliminare di evitare di estendere il disegno nelle zone mancanti del papiro (zone definite “buchi” in tutta la trattazione di Gallazzi Kramer).
Bene, Gallazzi e Kramer non giustificano in alcun modo le deformazioni evidenziate nelle figure e che sono chiaramente determinate dalla presenza dei “buchi” del papiro. Presenza che induce il falsario, come spiegato in “Fotografia e falsificazione” (vedi mio blog), a comprimere le zone disegnate, mano a mano che si avvicinano ai “buchi” e che, viceversa, lo induce ad estenderle abnormemente una volta che il disegno si allarghi in zone ove i “buchi” non siano più presenti.
La contestazione degli autori verte unicamente su due elementi:
1) Gallazzi e Kramer asseriscono che se i disegni fossero stati fatti quando già i “buchi” erano presenti nel papiro, noteremmo sui bordi dei medesimi delle sbavature di colore interessanti le parti di fibra cartacea che invece all’origine (quando il papiro era intatto) non potevano essere raggiunte dall’inchiostro perché compattate con le fibre contigue.
2) Gallazzi e Kramer asseriscono altresì che se invece il falsario avesse fermato il pennello subito prima dell’orlo dei “buchi”, noteremmo, al microscopio di sicuro, dei piccoli intervalli bianchi tra l’ultimo segno di inchiostro e l’orlo del “buco”.
Dato che nessuna sbavatura è presente sugli orli e nessun intervallo bianco appare tra le linee di inchiostro dirette verso l’orlo del “buco”, gli autori affermano essere, questi due dati, prove concrete e non confutabili del fatto che i disegni siano stati eseguiti quando il papiro era ancora integro
Tali ragionamenti non fanno una grinza, peccato però che gli autori ignorino colpevolmente che a questo problema io avevo già fatto specifico e puntuale riferimento, al termine del mio intervento, nella pubblicazione “Fotografia e falsificazione” e riporto qui quella parte di testo (pag. 75-76):
“ Se si volesse aumentare il livello di certezza sarebbe utile esaminare il documento dal vero, in quanto sicuramente si dovrebbero trovare tracce di inchiostro sullo spessore del papiro, là dove le linee finiscono su di una frattura. Se il falsario fosse stato molto in gamba, potrebbe aver provveduto a sfrangiare ulteriormente il papiro dove tali linee tendono a debordare ma non crediamo possa essere riuscito a mascherare tutto in modo perfetto. Nel caso in cui il falsario sia stato estremamente attento a non debordare e successivamente a sfilacciare il papiro, sarebbe sufficiente appurare un indebolimento della pressione sul pennello nei pressi delle fratture. E’ infatti assolutamente necessario alleggerire la mano sul pennello prima di interrompere la linea; anzi, questo avviene in maniera automatica se la linea deve arrivare, sempre visibile, fino all’orlo della frattura.”
Questa contestazione arriva dunque a proposito in quanto evita accuratamente di spiegare l’esistenza delle deformità da me rivelate (che sono la dimostrazione della falsità del papiro) e conferma semplicemente che il falsario ha usato precauzioni estreme nella realizzazione dei disegni, cosa di cui io, al momento della stesura del mio studio, non ero a conoscenza.
Quali precauzioni? Sono Gallazi e Kramer stessi a suggerircelo, specificando che di altri papiri è stata accertata la falsità proprio per l’inchiostro debordante oltre le fratture e per le interruzioni dell’inchiostro medesimo sugli orli delle stesse: mi sembra ovvio che il falsario abbia pensato bene, con tali precedenti, di non incorrere nel medesimo errore. Egli ha quindi certamente operato nella maniera che io già avevo ipotizzato: ha disegnato le figure mantenendo il pennello in compressione fino all’orlo dei buchi senza curarsi di debordare, ma ha poi provveduto a sfilacciare l’orlo dei buchi fino a che ogni traccia di inchiostro debordato non fosse sparita.
Il falsario si è poi dimostrato di notevole intelligenza in quanto ha addirittura utilizzato questo metodo per avvalorare ulteriormente l’autenticità del manufatto.
Come? dipingendo anche su zone quasi integre e provvedendo poi a sfilacciarle in modo esasperato, trasformando tali zone integre in un reticolo talmente rado da non poter ipotizzare che le linee di inchiostro fossero state tracciate in epoca successiva su quelle fibre, tanto distanziate tra loro, senza imbrattare in modo tragico i bordi delle fibre stesse.
Complimenti al falsario dunque, perché l’operazione deve essere stata lunga e difficile ma, del resto, quando si parla di milioni di dollari, la pazienza pervade anche chi, normalmente, ne è del tutto privo.
Si puntualizza poi che il processo di sfilacciamento è stato tranquillamente attuato senza problemi in quanto le fratture con cui abbiamo a che fare non sono “storiche”: i “buchi” si sono prodotti durante l’apertura o “scartocciamento” del papiro, sono cioè di origine recentissima e sui loro orli si può effettuare qualsiasi operazione di “asportazione fibre” senza che la cosa sia scientificamente rilevabile in quanto i bordi, anche se nuovamente sfilacciati, continuano a presentare le stesse caratteristiche prodotte dallo “scartocciamento” recente.
Ci tengo a questo punto a precisare che lo scopo di ogni mia ricerca è sempre stato quello di arrivare alla determinazione della verità e mai e poi mai ho sostenuto delle argomentazioni semplicemente “per aver ragione” a tutti i costi: mi sembra quindi poco corretto da parte di Gallazzi e Kramer non fare alcun riferimento all’ipotesi dello sfilacciamento che annulla a priori ogni loro argomentazione e al fatto che questa operazione l’avevo già ampiamente prospettata al termine della mia analisi.
Determinato quindi che il problema delle “sbavature” non sussiste, rimane invece quello basilare della deformazione dei disegni e sfido Gallazzi e Kramer a trovare un disegnatore che smentisca la mia ipotesi di compressione dei disegni dovuta a limitazioni di spazio (determinate dai “buchi”) e di dilatazione degli stessi dovuta all’assenza delle limitazioni medesime.
Nessun disegnatore, che sia degno di chiamarsi tale, si sognerà mai di smentire questa regola basilare della strutturazione del disegno.
Il Papiro di Artemidoro dunque, falso è e falso rimane, la contestazione di Gallazzi e Kramer null’altro fa che chiudere questo cerchio di falsità aggiungendo l’unica tessera mancante al mosaico, riguardante il raffinato modo in cui ha operato il falsario.
Alberto Cottignoli
BREVE SPECIFICA SULLE MIE QUALIFICHE (vedi poi biografia)
Allego una mail speditami da James Beck, massimo esperto mondiale di pittura rinascimentale italiana, Columbia University, New York, con cui collaborai per 5 anni, in cui egli afferma praticamente che io sarei il più grande Storico dell’Arte esistente.
Allego altresì un’intervista del Corriere a Marco Meneguzzo docente di Storia dell’Arte a Brera che sottolinea la correttezza delle mie analisi, in questo caso relative alla Madonna del Parto di Piero della Francesca