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TRA PITTURA E FILOSOFIA

 

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Nel 1968, a dicianove anni, per la prima volta mi ritrovai a tentare su un foglio paurosamente candido, un disegno che non fosse la copia di alcunché ma esclusivamente frutto della mia attività cerebrale.

Avevo già concretizzato allora che per un pittore “avere una buona mano” non era nulla di più che per un buon pugile “avere buoni muscoli”: un mezzo assolutamente necessario ma assai comune a molti, un “mezzo” che doveva servire da tramite a ben altro.

Di un’ altra cosa mi ero reso conto, e cioè del fatto che quello artistico è l’esercizio mentale che sviluppa i massimi livelli sintetici dell’attività cerebrale, esso è cioè lo strumento fondamentale atto a sviluppare i processi di dilatazione delle sinapsi che tra loro collegano attività e dati mnemonici della nostra mente, funzioni che stanno alla base, poi, di qualsiasi attività umana, anche di quella scientifica.

Capivo allora che fu “arte” e non “scienza” il mezzo che condusse gli uomini fuori dalle caverne e li distinse dagli animali; l’invenzione della ruota o dell’arco furono infatti ben altro che il prodotto di elaborazioni scientifiche: esse furono, semplicemente, il risultato dell’applicazione, alle problematiche dell’ambiente, dell’attività sintetica di individui che avevano tale facoltà più sviluppata degli altri. Non c’erano infatti, allora, conoscenze algebriche e fisiche particolari da avere, tutto era sotto gli occhi di tutti, non c’era necessità di studi per arrivare ad alcunché, poteva solamente accadere che:

UN UOMO VEDESSE CIO’ CHE TUTTI GLI  ALTRI NON ERANO IN GRADO DI VEDERE.

Quello non era uno scienziato, era un ARTISTA.

Solo quando l’attività dell’artista si differenziò dall’attività pratica sorsero le confusioni che cominciarono ad assillare la definizione del concetto di “arte” e che hanno permesso oggi a dei perfetti cretini di dire addirittura che l’”arte non deve avere nessuna utilità, nessun significato e nessuno scopo”.

Ma torniamo ai miei primi tentativi.

Avevo conosciuto allora la pittura surrealista e mi aveva affascinato la sua capacità di costruire mondi che nulla avevano a che fare con quello reale: in quale altro modo infatti si sarebbero potute applicare e sviluppare meglio le attività sintetico-creative della nostra mente? Liberi da ogni vincolo fisico-meccanico, le nostre tensioni, i nostri desideri ed i nostri sogni erano in grado, in questo modo, di esplicarsi senza limiti e senza costrizioni di sorta.

Mi resi però anche subito conto delle capacità tecniche di cui avrei dovuto impossessarmi per poter arrivare a costruire un universo personale; attraverso la conoscenza dei solidi, acquisita al liceo scientifico, ero già in grado di costruire mnemonicamente gran parte  del mondo fisico, ma la difficoltà primaria rappresentata dal corpo umano e dal suo movimento, non l’avevo mai affrontata, e fu qui che mi soccorse il primo dei postulati che è assolutamente necessario conoscere se si vuole condurre un’esistenza creativa: “le leggi della natura sono poche, probabilmente riconducibili ad una sola; se ci si muove nel medesimo campo d’azione in cui si è individuata una legge fondamentale, essa non muta se viene introdotto un elemento nuovo a cui la si vuole applicare, bisogna solamente capire in che modo tale legge debba essere applicata al nuovo elemento”.

In questo caso, bastò quindi rendersi conto che anche gli esseri umani sono corpi composti da forme solide (cilindri, tronchi di cono, sfere ecc...) e mi fu chiaro allora che non era necessario in fondo alcun modello per disegnarli, anzi, essi potevano così diventare (entro certi limiti) un libero prodotto della mia attività mentale. La resa prospettica degli arti non rappresentava poi alcun problema, non era che prospettiva dei suddetti solidi che conoscevo molto bene, avevo solo bisogno di molto esercizio. 

 

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  Primi disegni, 1975.

 

Furono disegni semplici all’inizio, ma l’armonia e la completezza con cui emulavano la mia organicità cerebrale mi produssero quasi immediatamente un effetto eccezionale: sigillavo ogni disegno appena terminato tra le pagine di un libro (la creazione durava, senza interruzioni e nel totale rifiuto di qualsiasi riferimento ad oggetti reali, dalle due alle tre ore ed io alla fine ero ormai stanchissimo e talmente abituato all’immagine da non riuscire più a valutarla) e tornavo a rivederlo solo il giorno dopo, quando ero perfettamente riposato. Qui accadeva una specie di “miracolo”: il disegno riemergeva come dal nulla, quasi non ne fossi io l’autore, e mi produceva un godimento enorme che si esprimeva immancabilmente col riempirmi il corpo, ma soprattutto la schiena, di lunghi e piacevolissimi brividi.

Non si concretizza forse, la vita degli uomini, proprio nella disperata ricerca di questa sensazione? Cosa  di più fortunato poteva accadermi del rendermi conto che potevo procurarmi tutto questo da solo? Non mi ci volle molto a capire che “quello” sarebbe dovuto diventare a tutti i costi il mio lavoro.  

Fu durante la formulazione di questi primi disegni che presi coscienza dell’infinità di leggi che il mondo della pittura, perso nell’era della tecnologia, aveva completamente abbandonato e, in molti casi addirittura dimenticato, prime tra tutte quelle che riguardano il disegno. Se Greci e rinascimentali ben sapevano cosa significa saper disegnare, oggi se ne è perso invece addirittura il significato, si è adesso in genere convinti che mettersi di fronte ad un modello e riprodurlo correttamente significhi “saper disegnare”: niente di più sbagliato, quello è semplicemente “saper copiare”. A questo si è ridotta la pittura contemporanea.

 

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                                         Matita su carta, copia della Pietà di Michelangelo

 

Presi poi anche contatto ed in maniera violenta, durante i miei TRE giorni di “permanenza” nell’Accademia di Belle Arti di Ravenna, con un altro errore fondamentale in cui è incorso, in questo secolo, l’insegnamento del disegno: La parola d’ordine del disegno-pittura contemporaneo era di “fare tutto in grandi dimensioni”. Nulla di più sbagliato (e ben lo sapeva Leonardo), in quanto disegnare in grande altera la percezione prospettica (certe parti del foglio sono molto distanti dagli occhi ed altre  più vicine e questo impedisce di prendere le proporzioni giuste), inoltre i tempi di realizzazione sono enormemente più lunghi, sia perché tracciare una linea doppia rispetto ad un’altra implica un tempo doppio, sia perché le stesse cancellature e rifacimenti moltiplicano i loro tempi in proporzionalità diretta con le dimensioni adottate. L’insegnamento accademico della copia quindi, moltiplica  i tempi di apprendimento e rende le acquisizioni di una difficoltà quasi insuperabile. Possibile sia così difficile capire che prima bisogna esercitarsi sul piccolo formato (procedimento più veloce e controllabile) e solo quando si è già imparato a disegnare cominciare a trasferire le proprie acquisizioni in grande formato?

Per non parlare poi dei margini! Imparare a disegnare con dei margini predeterminati è addirittura demenziale! Possibile che io debba avere un’idea bellissima ma che non possa realizzarla perché lo sviluppo uscirebbe dai bordi del foglio? Si comincia a disegnare in piccolo al centro di un foglio grande, questo è il metodo che ci garantisce la massima libertà e la massima possibilità di espressione! I margini si tracciano dopo e ciò che non serve del foglio si elimina!

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Quello che ho appena enunciato, che è logica pura ed indiscutibile, è invece considerata blasfemia dovunque venga applicato l’insegnamento artistico. Ed ecco che chi esce dalle accademie, non avendo potuto imparare a disegnare, finisce con grandi pennellesse col lungo manico ad imbrattare tele o a spazzare le strade della sua città.

Mi ritrovai inoltre di fronte al problema enorme della tecnica di utilizzo dei colori, anche questa ormai dimenticata ( è così facile in fondo premere un tasto del computer che riempie da solo gli spazi di oscene tinte semplicistiche e prefabbricate) che dava luogo, nei capolavori del passato, ad una resa cromatica e volumetrica di cui non riuscivo a capire i meccanismi. Mi aiutò in questo caso l’amicizia col pittore Riccardo Adelchi Mantovani, nel cui studio di Berlino imparai qual’era la base fondamentale su cui si basa la tecnica pittorica rinascimentale. Il problema fondamentale di chi comincia a dipingere è quello di riuscire a trattare contemporaneamente il problema del colore e del chiaroscuro, per intenderci, ogni corpo solido si presenta con un certo colore o con più colori ma, contemporaneamente, essendo soggetto (soprattutto all’aperto) ad una illuminazione direzionata, i colori di cui si compone variano a seconda della quantità di luce che li illumina. Sulla superficie di un solido anche monocromatico, si può dire che esiste una gamma pressoché infinita di colori. I pittori rinascimentali trovarono un mezzo che fece loro raggiungere risultati esaltanti: bastava dipingere tutto il quadro a olio solo in bianco e nero, rispettando tutti i passaggi chiaroscurali fino ad ottenere una specie di foto in bianco e nero del soggetto, poi lasciare asciugare molto bene il tutto, quindi coprire le varie parti da colorare del soggetto con i colori a olio di cui necessitavano (verde per le foglie, giallo per i limoni per esempio...), avendo però cura che trasparisse, da sotto, la base iniziale in bianco e nero. Chi successivamente vedeva le zone dipinte in tal modo senza sapere nulla, era convinto che ogni zona fosse stata dipinta con un colore diverso in tutte le sue variazioni di chiaroscuro! Bastava poi ritoccare le luci e rinforzare le ombre per ottenere un effetto cromatico-volumetrico incredibile.

Un altro problema era quello degli accostamenti cromatici. Ad esempio, se dobbiamo accostare un rosso ad un verde (due colori fortemente antagonisti) ma non vogliamo che tra loro e con il nostro cervello facciano a pugni, basterà passare (una volta che siano ben asciutti) sul verde uno strato trasparentissimo di rosso e sul rosso uno strato trasparentissimo di verde: terminata l’operazione nessuno si accorgerà degli strati appena aggiunti, praticamente nemmeno voi, ma all’improvviso vi troverete davanti un rosso ed un verde che stanno bene assieme.

Non ci vuole molto a rendersi conto che utilizzando questa metodologia chiunque è in grado di accostare tra loro i colori, anche senza alcuna esperienza antecedente; bene, di questo procedimento storico, assolutamente necessario, nessuna accademia insegna assolutamente nulla, i professori stessi, usciti dalle medesime scuole in cui poi insegnano, non lo conoscono e non sanno fare niente di più che sbattere i tubetti dei colori in mano ai ragazzi accusandoli poi di insensibilità cromatica se non riescono ad accostarli in maniera accettabile: e così potenziali geni della pittura vengono convinti, da un incapace, di essere anch’essi degli incapaci e costretti a rinunciare ad una attività senza che siano state loro insegnate le cose necessarie per poterla esercitare.

Ma una volta appropriatisi delle capacità tecnico-pratiche, quella importantissima che va acquisita è la capacità cerebrale di riuscire ad unire in una sola immagine più significati, la divina capacità che i Greci chiamarono sintesi, oggi completamente dimenticata e che sta alla base di ogni attività evolutiva umana. Un esempio semplice dell’applicazione di tale facoltà è l’orologio “molle” di Dalì, immagine all’interno della quale l’autore ha concretizzato il concetto di Tempo (l’orologio), quello della sua Relatività (la mollezza, l’adattabilità) e quello di Disfacimento legato indissolubilmente al suo trascorrere (scioglimento-dissoluzione). Altri esempi li ritroviamo nell’arte classica, nella statua di guerriero scavata nel Ceramico di Atene per citarne uno, in cui il corpo è colto in atto di muoversi con atteggiamento bellicoso verso destra mentre il volto,leggermente teso in alto, è girato nella nostra direzione con espressione stupita, come se all’improvviso, nel pieno dell’azione aggressiva, avesse visto lo spirito della morte che arrivava a ghermirlo. img192

 E’ assolutamente necessario a questo punto, riportare un frammento critico di B.Berenson (vate internazionale della Storia dell’Arte) da “The Central Italians Painters of the Renaissance” 1897:

<<A mio parere l’espressione facciale è così poco necessaria e a volte talmente inopportuna che, se una statua è priva della testa, difficilmente avverto la privazione. Le forme e l’azione, quando sono valide, bastano a farmi completare la figura nel senso da esse indicato; mentre c’è sempre il caso che, la testa, anche in sculture di ottimi maestri, ecceda nell’espressione; sia in senso superfluo, sia in palese contraddizione col senso che ispira l’azione e le forme>>.

Scrivere una cosa del genere significa essere completamente all’oscuro delle origini storico-classiche dell’arte, ma c’è ben altro! Non capire che il volto di una statua, attraverso la sua espressione, può modificare il significato dell’intera opera e moltiplicare per migliaia di volte il valore artistico della stessa non è più solo questione di ignoranza, ma questione di vera e propria stupidità, e talmente profonda da non poter essere nemmeno valutata. Cosa mai ha capito questo personaggio (da cui ogni critico contemporaneo dipende nei suoi giudizi),della profondità delle espressioni che i grandi geni produssero nei volti dei loro personaggi? Assolutamente nulla!

Ma torniamo alla mia pittura che cominciò ad avvalersi di questo principio sintetico fin dai primi esperimenti e la cui utilizzazione andò evolvendosi nel tempo fino ad arrivare a livelli che ora sfuggono persino alla mia attività cosciente.

Fanciulla Romantica

 

E’ però necessario puntualizzare uno dei metodi atti a concretizzare la sintesi: si tratta dell’utilizzo delle sovrapposizione dei piani prospettici differenziati, cioè della creazione di immagini attraverso la sovrapposizione di oggettualità che si trovano in primo piano con altre che si trovano più distanti (dietro).img210  Sia chiaro che questo metodo è di difficilissima applicabilità in quanto va contro ad uno dei primi principi della dinamica pittorica che proibisce di tracciare segni in primo piano che possano confondersi col secondo piano: solo motivazioni molto profonde possono quindi trasformare questa attitudine da errore in manifestazione di genio.

 E’ questo comunque, il mezzo fondamentale utilizzato da Piero della Francesca in tutta la sua opera e che fu evoluto, sublimato e quindi portato ai massimi vertici da Leonardo da Vinci. Probabilmente la pittura Greca era arrivata già a questo punto nel VI secolo prima di Cristo, ma ci rimangono solo ceramiche dipinte che sicuramente non sono che un pallido riflesso della grandezza raggiunta dai grandi artisti della pittura parietale.

Un esempio di grande pittura su ceramica è il centro di una kylix ateniese a figure nere, probabilmente di Amasis:img095 in questo medaglione stupendo, il genio che lo dipinse, utilizzò la sovrapposizione dei piani prospettici in maniera grandiosa, fece infatti in modo che il profilo dei colli e dei posteriori dei cavalli ( che sono su due piani diversi) proseguissero lungo la stessa linea in modo da ottenere così un’illusione ottica di movimento. Questa linea sembra infatti ( il profilo dei posteriori dei cavalli) essere una traccia della posizione antecedente dei colli stessi prima che i destrieri si impennassero. Il risultato è quello di una tensione grandiosa che par far esplodere verso l’alto e verso l’esterno, in uno scalpitio sfrenato, il centro del medaglione, come con me convenne il Rohsenbaum, uno dei più grandi antiquari del mondo.

 

  Una trattazione particolare merita, all’interno della dinamica metodologica, il problema del moto da cui fui affascinato, nei primi tempi, anche dal punto di vista filosofico; mi rendevo conto allora infatti, che esso rappresenta l’unica certezza all’interno del mondo fenomenico ( il tempo non è che un’entità fittizia, niente di più che una parte di moto utilizzata per misurare il moto stesso) anche se lo stesso concetto di moto non esula da problematiche anche per il fatto che l’istante preciso del verificarsi del movimento risulta indefinibile in quanto divisibile all’infinito.

img209Mi accorsi comunque, con mia grande soddisfazione, che riuscivo a trattare il corpo umano in movimento con estrema facilità e scioltezza. Successivamente però il movimento fisico sublimò in un altro movimento di tipo mentale, allorché presi coscienza del fatto che il moto materiale è ben poca cosa in confronto a quello che la razza umana vive all’interno della propria psiche: sono le dimensioni della ragione e del sentimento quelle che sopravanzano tutte le altre negli umani e, di fonte a queste agitazioni interiori, il  mero moto fisico assume una ben effimera importanza. Ma come rappresentare questo tipo di movimento? Mi soccorsero, in questo caso, il concetto di “tensione” e di “simmetria”, in quanto, avendo ormai evoluto la dinamica delle masse in forme di bilanciamento armonico che esulavano completamente dalla simmetria, ero adesso in grado di ritornare ad essa non utilizzandola in maniera primitiva e retorica, cosa che in pittura deve essere assolutamente evitata, ma rivivendola e reinterpretandola: le simmetrie che cominciai a creare, lungi dal manifestare la staticità caratteristica di questo tipo di strutturazione, divennero il fulcro di tensioni immani, atte finalmente a rappresentare le parallele tensioni psichiche che si agitano all’interno della nostra mente (fu questa una delle caratteristiche principali che attrassero i giapponesi).

Nascevano così gli aquiloni azzurri e rosa (simboli delle realtà maschile e femminile) che si muovono all’orizzonte per direzioni contrarie, rappresentanti le due dimensioni simili e parallele ma tra loro indipendenti (gli aquiloni, essendo spinti dal vento, non possono andare in senso contrario se non perché viaggianti in due mondi diversi che solo illusoriamente paiono essere lo stesso, cioè, in questo caso, il mondo maschile e quello femminile); nascevano i due aquiloni dal corpo di uomo e di donna che fanno l’amore in cielo, all’apparenza eternamente statici nel loro amplesso ma condannati invece a separarsi a breve per le tensioni contrarie dei venti dei due mondi che li governano; prendeva allora forma l’associazione della Luna ad elementi terrestri posti in primo piano, a costruire nuove unitarie immagini cariche di tensioni celesti; nascevano i primi rami fioriti di stelle, rami che non sono, in fondo, che ramificate spaccature del cielo perse ad inseguire e congiungere tra loro i bagliori lontani che lo illuminano; e poi ancora cavalli a dondolo spronati in cavalcate impossibili da figure a metà fra l’adulto e il fanciullo; alberi dalla forma di cuore che sembrano  tutt’uno ad un primo sguardo ma che invece non sono che due piante di due mondi, l’una fiorita di rosa, l’altra d’azzurro, cresciute vicine; e via così, nell’unità apparente di una simmetria che nasconde invece fratture e tensioni di una profondità tragica ed insanabile.

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Sentivo di aver realizzato in pittura, attraverso questa nuova trattazione del moto, qualcosa di simile alla letteratura: se essa infatti trova uno dei suoi maggiori motivi di grandezza nel sublimare il “detto” in “non detto”, così la mia pittura trovava adesso una delle sue massime componenti di grandezza nel riuscire, in egual modo, a sublimare il “moto” in “tensione”.

Quanta tristezza mi fecero allora i meschini tentativi dei futuristi, tutti protesi, coi loro squallidi giochetti, alla ricerca meccanica del semplice moto fisico.

                                                                                                                 Alberto Cottignoli 

 

 

 

  n.r. Nel 1984 Cottignoli partecipa ( insieme ad altri 4300 pittori) al primo concorso indetto dalla rivista Arteimg193 della Mondadori con il quadro “Il sogno di Cyrano” e come conferma delle sue grandi capacità pittorico-filosofiche lo vince e ottiene un grande successo.

 

 

 

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