DA UN MARE PIU' LONTANO
Agli abitanti della mia città piace stare dalla parte del sicuro: siccome ogni tanto è nuova, altre volte la coprono le nuvole, altre le case, la Luna se la sono fatta da soli, anche se luccica un po' di meno, e l'hanno messa in cima ad una torre, proprio in fondo alla piazza più grande e più centrale che c'è, quella Del Popolo.
Perchè, come la vera, desse loro il senso del tempo che trascorre, le fissarono poi, nel centro, due frecce di bronzo e, attorno, una quantità di numeri romani.
Non proprio lì sotto, che potrebbe sembrare esagerato, ma un po' più a sinistra, lontano dal brusio della gente che si accalca tra le lanterne che segnano, come vecchi moli, i bar dall'altra parte della piazza, c' è sempre stata una panchina, una specie di piccola zattera immobile su quel mare pacato di larghe pietre chiare.
Fu proprio lì sopra che la trovai quella sera.
Veniva da una punta di terra persa in un altro mare molto più lontano, mare dalle cui spiagge antichi templi, ancora intatti, scrutano l'apparire di vele che non possono più tornare.
Vele di genti arrivate dalle frastagliate coste dell'Est, genti assetate di infinito, creatori di miti, forgiatori di eroi, cacciatori d'eterno protesi a fare di sè, riflesso ai propri Dei.
Aggrappata a questo rettangolo di pietra, di sicuro naufragò da uno di quei legni in queste terre diverse.
Qui, dove mai si pensa a più in là del giorno dopo, qui, dove nemmeno più ai bambini si raccontano le favole.
Gli occhi, sospesi tra voglia di felicità e stanchezza delle cose, di sicuro cercavano qualcosa, ma scorrevano piano, deboli di speranza, su quell'orizzonte breve di palazzi antichi che chiudevano la piazza.
Ma non avevano onde quelle pietre chiare, e non luccicavano, tra le spume, torsi di tritoni.
Non arrivavano dagli anfratti in ombra, canti di sirene.
Nessun mito, niente storie infinite, niente che andasse oltre, nulla che sapesse d'eterno.
Dava, quella Luna strana, luce e rintocchi a tutte cose brevi, sorridenti e orgogliose d'esser nate morte.
Quando mi sedetti accanto a lei, ancora non sapevo che avremmo navigato assieme.
Alberto Cottignoli
LA GUARDIANA
Il mio bosco si distende all'orlo delle prime balze che si ergono, laggiù in maremma, a scrutare il Tirreno, proprio al margine di quelle colline che ancora paiono segnare il confine tra la città di Vetulonia, l'antica, e Kalousion, l'eterna, di cui Porsenna, vincitore di Roma, fu signore.
Da millenni si protendono, i suoi rami antichi, verso la massa scura dell'Argentario che, inquieta, ad occidente emerge dalle acque e che ogni sera si accende, del sole che tramonta, rutilante di luce, oltre l'isola del Giglio.
Si allargano tra gli alberi, proprio al centro del bosco, due piccole radure, una più in basso ed una più in alto, a seguire il pendio su cui la vegetazione degrada.
Al margine della radura di sotto, si ergono, fuori dalla terra ed in parte già ombreggiate dagli alberi che arrivano a sfiorarle, cinque pietre colossali: ciascuna grande ben più del doppio di quelle che, lungo il Nilo, gli egizi trascinavano alle loro piramidi.
Le ho strappate, nei mesi passati, alle profondità misteriose della radura di sopra e le ho radunate qui, per scolpirle.
Sdraiata su quella che, lunga e piatta, appena più piccola delle altre, si distende sul terreno, completamente all'ombra.........dorme Annamaria, lontano dal fragore dei miei scavi che percuote la collina fino a sera.
Anche quando mi perdo nelle profondità della terra però, lei non è mai sola:
a sorvegliare il suo sonno c'è sempre una farfalla strana, bianca e nera, di una specie che mai avevo visto prima.
Se ne sta tutto il giorno sulla cima della roccia più alta,quella che si erge più vicina alla pietra su cui Annamaria riposa e .......... ogni volta che qualcosa si azzarda a sorvolare la zona, si scaglia su quella con veemenza estrema.
Nulla le sfugge, financo molti metri più in alto ed in continuazione si lancia, in piroette convulse, a scacciare gli intrusi: api, calabroni, libellule o sorelle sue di un'altra specie.
Per saggiarne la perizia ho pure scagliato in alto un minuto frammento di buccia d'arancia....... lei lo ha assalito e poi seguito in infiniti vortici forsennati finchè non è caduto a terra.
Così, adesso, lavoro più tranquillo alla radura di sopra, diciotto metri sotto terra, con massi enormi in bilico sopra la testa, sapendo che la mia donna è al sicuro, protetta dalla sua infaticabile guardiana.
Per quindici giorni ho scavato, inoltrandomi sempre più nel profondo della terra, mentre lei arabescava, imperterrita, strani, concitati disegni sopra le ciglia chiuse della mia donna.
Dalla terza settimana però, qualcosa è cambiato: i suoi voli si son fatti più radi e più stanchi.
Due giorni dopo...... solo raramente si alzava a contrastare gli intrusi.
E non erano adesso, le sue, che poche piroette stentate, pallida ombra delle evoluzioni sfrenate di prima....... poi, sempre più spesso, portava a riposare, alla cima della roccia, le ali stanche.
Lì l'abbiamo lasciata, l'ultima sera, prima di tornare a Ravenna, ma ben sicuri in cuor nostro, che si sarebbe certamente ripresa.
Sicuri che al nostro ritorno l'avremmo trovata ancora al suo posto, sulla stessa roccia, pronta, non appena la mia donna avesse chiuso gli occhi, a scagliarsi sugli intrusi che avessero osato violare quel lembo di cielo.
E, se non l'avessimo ritrovata, di sicuro sarebbe stato solamente perchè lei così aveva deciso.
Semplicemente perchè si era spostata.
Si, sicuramente più in alto, magari proprio sulla cima della collina, in un posto più vicino al cielo e, certamente, più bello, molto più bello di questo.
LA VITA E’ UN SUSSULTO,
COSTELLATO DI PICCOLI, INFINITI PALPITI
Alberto Cottignoli
LA TORCIA
Ero riemerso dalle profondità dello scavo molto tardi quella sera, il tempo di mettere a posto gli attrezzi, giù al fiume, di raccogliere le cose....... e già era calata la notte.
Distrutto da più di dodici ore di lavoro, cominciai allora lentamente a risalire, alla luce della torcia, lungo il sentiero che, dal guado di sotto, portava alla sommità del bosco.
Tremolava lassù, in cima alla collina, all'estremità del sentiero, la debole luce di un'altra torcia.
Quella che la mia donna teneva accesa per indicarmi la via.
Fu solo quando il sentiero si fece più erto ed i bordi, che non vedevo, più fitti d'erba incolta, di cespugli e di piante, che me ne accorsi:
fluttuavano, ai miei fianchi, su, fino alla testa ed oltre, infinite, intermittenti, piccole luci.
Spensi la torcia e, magicamente, la via del ritorno, prima assolutamente invisibile, si disegnò nettissima nella notte.
Due lunghe strisce, palpitanti di migliaia di minuti bagliori, risalivano parallele verso l’alto e parevano riunirsi proprio là, sulla cima, dove la torcia della mia donna sempre baluginava.
Un viatico buio le separava inarcandosi verso l’alto.
Nulla di tenebroso inquietava l' oscurità di quella strada, solo, mentre lungo quella mi muovevo, la sensazione di librarsi nel vuoto, tra due fasce pulsanti che magicamente mi sostenevano e mi indicavano la via.
Risalii così, lungo quel limbo buio, sospeso tra pareti stellate che mi respiravano ai fianchi, sempre più in alto, verso la macchia lunare che alla mia donna, ancora, tremolava tra le mani.
Fu quando oramai ero giunto alla cima, dove il palpitare ai miei fianchi si faceva più rado, che la torcia si spense.
Non le chiesi perché.
L’abbracciai e la baciai.
Ancora non sapevo che non si sarebbe più riaccesa.
Oltre le spalle sue, adesso, al di là della cima.....si distendeva, a valle, per ogni dove,
l’oscurità profonda della notte vera.
Alberto Cottignoli
LETTERA A MINU'
Cara Minù,
ti ringrazio per essere ciò che sei e perchè mai, come nelle favole ti trasformerai in un essere umano.
Mia cara, che orrenda cosa gli uomini!
Tu prendi il latte felice dall'orecchio mio e della mia donna, e nulla sai di loro e delle loro trame, qui su questo balcone che fiorisce anche a Natale.
Cosa ne sai tu di che mostri sono?
Di cosa sono capaci per denaro e di come, in questo secolo appena trascorso abbiano affinato come non mai, con buonistiche fole di democrazia e d'amore, l'ingordigia e la mostruosità loro?
Tu passeggi felice tra i miei quadri stesi ad asciugare, tra cieli sempre azzurri e nuvolette che paiono di bambagia: sfondo e sostegno a carri candidi che trascorrono, carichi di Luna e stelle, o a barchette di carta traboccanti di giochi e di noi, di noi come dovremmo essere e come, forse, una volta fummo.
Nulla tu sai di quelli là di sotto.
Solamente ti scuote, ogni tanto, un urlo loro, giù sulla strada, che alle orecchie ritte per qualche istante rimbomba.
Poi, lentamente, assieme allo sfinire di quello, ti acquieti in un sussurro di fusa.
Qui, al calore delle mie ginocchia.
Tu, nulla sai.
Alberto Cottignoli